Con la circolare n. 12/E del 12 maggio 2020 l’Agenzia delle Entrate ha fatto chiarezza sui rapporti tra normativa nazionale ed unionale in merito alla documentazione da conservare al fine di dimostrare l’effettivo trasferimento fisico della merce da uno Stato membro di partenza ad un diverso Stato membro di destinazione della stessa. Si tratta di uno dei presupposti fondamentali per poter emettere una fattura non imponibile IVA ai sensi dell’art. 41 comma 1 del D.L. n. 331/1993. [1]
In particolare, la circolare ha affermato come il “nuovo” regime probatorio, previsto dall’art. 45-bis del Regolamento UE di esecuzione n. 282/2011, non impedisca agli operatori di utilizzare diversi mezzi di prova, come individuati dalla prassi finora vigente. [2]
Si tratta di una precisazione che le associazioni di categoria e gli operatori privati attendevano dallo scorso gennaio, quando, entrando in vigore il Regolamento UE 2018/1912, la “vecchia” documentazione di prassi sembrava dover essere interamente sostituita dalla disciplina unionale in materia di prova della cessione, la quale appariva decisamente più gravosa (soprattutto per il cedente franco fabbrica).
In realtà già le Note Esplicative pubblicate a dicembre 2019 dalla Commissione Europea [3], pur non essendo giuridicamente vincolanti, avevano chiarito come gli Stati membri rimanessero liberi di applicare le regole interne già esistenti, eventualmente anche più flessibili di quelle previste dal suddetto art. 45-bis. Dunque, la prassi affermata dall’Agenzia delle Entrate in tema di prova della cessione intracomunitaria non va accantonata e continua ad essere efficace.
Ma allora perché intervenire con un Regolamento apposito? Perché introdurre una nuova normativa, per poi ammettere l’ininterrotta validità delle regole precedenti? La risposta va ricercata nel diverso valore probatorio esistente tra “vecchia” e “nuova” disciplina.
La disciplina comunitaria in materia di IVA considera imponibile la generalità delle cessioni: ogni fattispecie prevista in deroga a questo principio generale va interpretata restrittivamente, e spetta a colui che si avvale di tale deroga provare i fatti a fondamento della propria pretesa. Nel caso di specie, quindi, spetterà sempre al cedente (indipendentemente da chi si incarichi di curare il trasporto) dimostrare l’effettivo trasferimento fisico della merce: in difetto di tale prova la cessione dovrà essere assoggettata ad imposta.
La Direttiva Iva, tuttavia, non fornisce indicazioni sulla documentazione ritenuta idonea a dimostrare l’effettiva movimentazione della merce in caso di accertamento: spetta agli Stati membri stabilire in anticipo quali mezzi di prova il cedente dovrà fornire a tale scopo, nel rispetto del principio di proporzionalità e certezza del diritto [4]. Ma non tutti gli Stati membri hanno recepito in maniera uniforme la direttiva: alcuni di essi hanno adottato norme interne che stabiliscono come integrare le prove di uscita della merce, altri (come l’Italia) non hanno provveduto a disciplinare in maniera specifica la materia. A colmare il vuoto normativo nel nostro ordinamento, come detto, ha provveduto in via di prassi l’Agenzia delle Entrate.
La conseguenza di questa difformità è che, qualora la disciplina interna non sia univoca (o non venga applicata in maniera uniforme da coloro che provvedono ai controlli), spetterà al giudice del caso concreto decidere di volta in volta se gli elementi di prova forniti dal cedente possano essere ritenuti o meno idonei.
Ecco perché, a livello comunitario, è stato ritenuto opportuno introdurre (attraverso lo strumento normativo del Regolamento, immediatamente applicabile) una prova che risulti valida in ciascuno Stato membro, non discrezionale, ed in quanto tale confutabile solo in caso di dimostrazione oggettiva di mancata uscita della merce o di contraffazione dei documenti integranti tale prova.
Il nuovo art. 45-bis prevede quindi una presunzione relativa [5] in favore del cedente che sia in grado di produrre la documentazione tassativamente individuata dalla norma: in tal caso, infatti, sarà l’autorità che provvede al controllo a dover dimostrare che, nei fatti, la merce in questione non ha mai abbandonato lo Stato membro di partenza (oppure che la documentazione presentata dal cedente non sia corretta o sia falsa). Nel caso in cui le amministrazioni nazionali non riuscissero a fornire tale prova, la cessione comunitaria dovrà essere considerata effettiva e quindi non imponibile [6].
Qualora invece il cedente non sia in grado di produrre la documentazione prevista dall’art. 45-bis, potrà comunque dimostrare che l’operazione è stata realmente portata a termine ricorrendo alla “vecchia” documentazione di prassi. Ovviamente, in questo caso, non troverà spazio la presunzione relativa, ma si applicherà il principio generale sopra richiamato che pone sul cedente l’onere di provare i fatti a fondamento della pretesa non imponibilità della cessione.
In definitiva, preso atto del diverso valore probatorio esistente tra la “vecchia” e la “nuova” disciplina, il cedente è chiamato ad effettuare una attenta analisi della documentazione a propria disposizione, alla luce anche dei chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate, con lo scopo di individuare l’assetto probatorio che gli consenta di porsi a riparo da eventuali contestazioni successive, e quindi dal rischio di vedersi applicata l’IVA su fatture di vendita emesse originariamente come non imponibili.
Circolare Agenzia delle entrate n.12 del 12 maggio 2020
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