Ormai sono passati più di otto mesi dall’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2023/956 del Parlamento Europeo e del Consiglio, che ha introdotto un meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM).
La normativa in questione è espressione della politica ambientale dell’Unione Europea e del suo fermo impegno a ridurre del 55% le quote di emissione di gas ad effetto serra (GHG) rispetto ai livelli degli anni ’90, con l’obiettivo ultimo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.
Se il fine è più che condivisibile (la gestione dell’emergenza climatica è una questione indifferibile – ne va della vitalità del nostro pianeta), leggendo e rileggendo il regolamento di esecuzione (UE) 2023/1773 della Commissione, i dubbi sull’adeguatezza del sistema architettato dall’Unione Europea sono sempre più insistenti. Soprattutto man mano che ci si avvicina il 31 luglio 2024, data ultima (salvo cambi di rotta) per utilizzare i valori di default ai fini del calcolo delle emissioni di CO₂ degli impianti produttivi coinvolti.
L’intero sistema, che a pieno regime comporterà il pagamento di certificati incorporanti una sorta di “diritto ad inquinare”, poggia su una responsabilizzazione (accompagnata da relativa sanzione) delle aziende importatrici unionali in ordine alla dichiarazione di una serie di informazioni dettagliate e specifiche riguardanti gli impianti di produzione, la loro localizzazione, i percorsi produttivi adottati, le fonti dell’energia elettrica impiegata e in ultima il calcolo della CO₂ rilasciata in atmosfera per produrre la merce soggetta a CBAM oggetto dell’importazione. Possono essere comprese anche per realizzare i c.d. precursori, quando coinvolti nel ciclo produttivo di merci complesse (con la necessità di risalire la supply chain per ottenere tutti i dati necessari)
È evidente la difficoltà di qualsiasi operatore economico (a maggior ragione delle piccole imprese, coinvolte anch’esse nel meccanismo data la franchigia estremamente ridotta di soli 150 € a spedizione dei beni in scope per non ricadere nell’applicazione del regolamento) a ottenere questi dati dal proprio fornitore extra-UE. Fornitore che non ha nessun obbligo specifico di condividerli e che non è passibile di sanzione per questioni di territorialità (fatta salva l’eventuale sanzione “contrattuale”, che è strettamente legata alla forza commerciale della parte che la impone).
Difficoltà che diventa quasi insormontabile quando la controparte contrattuale non è un produttore ma un trader, il quale non avrà nessun interesse a rivelare l’identità del proprio contatto.
Tra l’altro la formulazione stessa del regolamento di esecuzione appare estremamente complessa e frammentata, con continui rinvii ai diversi paragrafi ed allegati che lo compongono. I criteri utilizzati per il monitoraggio, e le formule suggerite per il calcolo delle emissioni presuppongono una specifica competenza tecnica e settoriale.
Vero è che la Commissione ha messo a disposizione degli operatori numerosi strumenti per approfondire la materia: guide, FAQ e videocorsi, oltre ad un template in Excel in favore dei gestori degli impianti produttivi.
Ma il template non sembra essere agevolmente utilizzabile, e quanti gestori di impianto saranno disposti a studiare una “Guidance document on CBAM implementation for installation operators outside the EU” di oltre 200 pagine in assenza di una qualsiasi responsabilità per quanto poi dichiareranno ai propri clienti europei? Quali accetteranno di conservare per almeno quattro anni i registri contenenti tutti i dati e i documenti giustificativi ai fini della determinazione delle emissioni, per metterli a disposizione del dichiarante su richiesta? Quale tutela contrattuale sarà necessaria per assicurarsi la collaborazione dei produttori extra-unionali?
L’impressione alla luce di queste considerazioni e guardando anche alla architettura del meccanismo definitivo, alla proiezione dei prezzi che verranno imposti per l’acquisto dei certificati CBAM, all’entità delle sanzioni ma soprattutto alla difficoltà pratica dell’implementazione del sistema così per come è disegnato, è che più che l’ambiente ne usciranno giovate le casse dell’Unione Europea, con buona pace delle aziende importatrici unionali, dei consumatori sui quali verranno riversati i maggiori costi e soprattutto della salute del nostro pianeta.
Ma non è detta l’ultima parola: le elezioni europee sono imminenti e dai risultati delle votazioni dipenderà anche il futuro della politica ambientale unionale. Ai posteri l’ardua sentenza…
Giulia Cicheri